Proseguiamo la nostra riflessione intorno ai film italiani dedicati alla Grande Guerra prodotti negli anni Cinquanta, con tre film del 1954, contrassegnati dallo stile melò più estremo.
Il primo è La campana di San
Giusto di Mario Amendola e Ruggero Maccari. La pellicola racconta la vicenda del patriota triestino Roberto che, richiamato alle armi nel 1917, passa il confine per evitare di vestire l'uniforme austriaca. Arruolatosi nell'esercito italiano, Roberto compie un'impresa gloriosa. Ferito, riesce a raggiungere la sua villa dove trova un maggiore tedesco che lo fa
prigioniero, mentre i bersaglieri italiani entrano a Trieste. Melò fra i
melò, il film aggiunge alla retorica “patriottarda” tutti gli ingredienti relativi al
feuilleton ottocentesco, accumulando disgrazie, vicende complicatissime e accidenti vari, il tutto all'unico scopo di far piangere gli spettatori.
Lo stesso anno vede l'uscita nelle sale di Guai ai vinti di
Raffaello Matarazzo. Il film, ambientato nelle giornate e nei mesi che seguirono la disfatta di Caporetto, narra il dramma di due donne,
Luisa e la cognata Clara, che vengono violentate dai soldati dell'esercito asburgico. Rimaste incinte, prendono decisioni opposte: Luisa abortisce, mentre Clara, sfidando le convenzioni e perdendo l’amore del giovane
fidanzato soldato (che si pentirà solo in extremis), sceglie di tenere il bambino. La lacrimosa vicenda è accompagnata da squilli di
fanfare, acclamazioni ai «Savoia!» e penne al vento.
Terzo film melodrammatico di quel 1954, Trieste cantico
d’amore di Max Calandri racconta la storia di una giovane
nobile, innamorata di un italo-americano, divenuto poi un celebre cantante. L'uomo è incaricato di una missione politica segreta a favore dell’Italia. La trama comprende insurrezioni, scoperte e condanne a morte, inganni e matrimoni con cugini austriaci e tanto altro: una serie inenarrabile di sentimentalismi ed errori storici che disegnano una grottesca contraffazione della storia di Trieste durante la Prima guerra mondiale(1).
Ispiratosi ad un fatto di cronaca, Pino Mercanti realizza, sempre nel 1954, I cinque dell’Adamello, racconto del ritrovamento delle salme di cinque alpini, travolti da una valanga dopo un’audace azione effettuata sull'Adamello durante la guerra del '15-'18. Partecipa alla spedizione un giornalista, figlio di uno dei cinque soldati, socialista
come il padre. Film sentimental-patriottico-nazionalista con netta tendenza al bozzettismo, che ricostruisce, a colpi di flashback, la vita dei dinque alpini: una pattuglia comandata dal giovane tenente Piero (un inventore di grandi ambizioni) e composta da Momi, il suo affezionato
attendente, un cameriere d'albergo, vedovo con una figlia assai capricciosa, Doschei, un giovane contrabbandiere (la cui conoscenza della montagna si rivela preziosa) innamorato della vivace
Mariolina, Pinin,
precettore in un collegio, imbevuto di romanticismo dannunziano, e Renato,
robusto scalpellino, socialista militante. Cinque uomini che, in mezzo al quotidiano travaglio della disagiata vita del fronte, trovano conforto nel ricordo di un affetto, nella speranza di
un migliore avvenire, nella condivisione di un'esperienza. Spunti che, seppure non sempre adeguatamente sviluppati, risultano in vari punti interessanti e non sono del tutto rovinati neppure dal retorico finale risuonante di onori ai caduti, del suono del
silenzio fuori ordinanza e di altri simili preziosismi. Il film va probabilmente annoverato tra i pochi accettabili del periodo (2).
Tra i film di
montaggio degli anni Cinquanta che vale la pena ricordare c’è Cavalcata di mezzo secolo di
Carlo Infascelli e Luciano Emmer (del 1950). Utilizzando spezzoni di
cinegiornali, la pellicola ripercorre i principali avvenimenti storici che hanno
caratterizzato il nostro paese dall'inizio del Novecento fino al 1950. Riguardo alla Grande Guerra, sono riportate immagini dell’uccisione dell’erede al trono d’Austria a Sarajevo e dello scoppio della
guerra; viene quindi illustrata la fase di neutralità dell’Italia, la successiva entrata in guerra e gli
eventi del fronte fino alla vittoria finale. Il tentativo di ricostruire un ambiente e un’epoca si risolve in un’antologia di immagini composta in maniera facile e
approssimativa. Il commento pone maggiore attenzione alla battuta che ai contenuti storici,
entro quindi una superficiale cornice umoristico-anedottica (3).
A partire dalla fine degli anni Cinquanta, nel cinema italiano si liberano diverse remore e censure
politico-culturali sulla valutazione (tra l'altro) degli avvenimenti storici di cui stiamo parlando. Diviene dunque possibile affrontare il tema scottante della guerra da punti di vista differenti e anche di parlare della voglia di pace che esisteva tra i soldati e tra la gente delle classi popolari. Alcuni film si possono dunque finalmente addentrare in una sana e articolata “rivisitazione” del periodo della Prima guerra mondiale, come La grande guerra di Mario Monicelli, mirabile pellicola del 1959 che, attraverso una miriade di
episodi frammentati e di personaggi a volte anche negativi, mostra la realtà
cruda e spesso paradossale della vita dei soldati. I protagonisti di questo grande affresco corale sono due antieroi per eccellenza: Oreste Jacovacci, romano, e Giovanni Busacca, milanese, interpretati impeccabilmente da Alberto Sordi e Vittorio Gassman. I due, nonostante l'indolenza, la furberia e l'ostentata vigliaccheria, sapranno infine morire da “eroi”, più per dignità personale che per un astratto concetto di “amor di patria”. Il campo di battaglia mostrato in questo film è un vero e proprio mattatoio dove i giovani fanti
sono mandati all’assalto malnutriti e senza l’appoggio dell'artiglieria, al
comando di ufficiali inetti, boriosi o rassegnati. Approccio volutamente antiepico che tuttavia non nega alle scene di battaglia il respiro del grande cinema bellico, con
la fotografia dinamizzata dalla profondità di campo e dai virtuosistici movimenti di
macchina. La narrazione, alternando sapientemente frammenti umoristici a momenti amari, si presta assai bene a raccontare dal punto di vista del soldato le ambiguità e le barbarie che caratterizzarono quella guerra(4).
Stefano Cò
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Note:
1) Per il film di Amendola e Maccari vedere la
trama e la critica in Gianfranco Casadio, cit., pp. 62 e Roberto Chiti, Roberto
Poppi, cit., pp. 73-74; sul melò di Matarazzo, tratto dal romanzo Vae
victis! (1917) di Annie Vivanti, «turgido melodramma lacrimogeno sulla
condizione della donna. Per i fan di Matarazzo, campione del cinema popolare
negli anni ‘50, un film capitale» (il Morandini), vedi la scheda in
Gianfranco Casadio, cit., pp. 63-64 e Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit., p.
181, e per una rivalutazione, sia dal punto di vista narrativo che visivo, una
sintesi che lo vede anche come uno dei film più teorici sulle caratteristiche
di Matarazzo, sulla sua trattazione della condizione femminile, vedi Angela
Prudenzi, Raffaello Matarazzo, Il castoro cinema/ La nuova Italia,
Firenze, 1990 (ma stampato nel ’91); sul film di Calandri, Gianfranco Casadio,
cit., pp. 65 e Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit., p. 376.
2) Sul film di Mercanti, specialista di film di
genere popolare che aveva esordito con All'alba della gloria (1943)
sullo sbarco dei Mille in Sicilia, vedi Gianfranco Casadio, cit., p. 63 e
Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit., p. 98.
3) Per il film con la regia di L. Emmer e
l’ideazione e coordinamento del produttore Carlo Infascelli vedi Gianfranco
Casadio, cit., p. 79 e 92; sul tentativo di ricostruzione, con esattezza storica,
di un’epoca da parte di tali film di montaggio con spezzoni di cinegiornali
vedi la critica di M. Siniscalco citata in Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit.,
pp. 88-89.
4) Per interessanti e illuminanti, anche per
l’epoca in cui sono scritti, recensioni
vedi Guido Aristarco, “Il mestiere del critico” in Cinema Nuovo, n. 141,
sett./ott. 1959, pp. 425-426, riportato in parte da Gianfranco Casadio, cit.,
pp. 67-68 e Claudio G. Fava, “Corriere Mercantile”, ott. 1959, citato da
Casadio, cit., a p. 50; per la trama e scheda, Casadio, cit., pp. 66-67; per
un’ulteriore scheda sulla novità e sull’importanza del film Claudio G. Fava,
op. cit., pp. 105-106; per una breve e corretta sintesi, l’attenzione per le
scene frammentarie che spiegano bene la guerra e una revisione sul finale,
considerato come una «nota di retorica» e «opportuno e tuttavia un po’
pretestuoso», Roberto Nepoti, cit., pp. 116-117; per un’analisi testuale del
film, delle scene sul fronte e dei frammenti sulla compagnia di giovani e meno
giovani soldati vedi Ivelise Perniola, ““La grande guerra” o della codardia
resa virtù”, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario Monicelli, a
cura di Leonardo De Franceschi, Marsilio, Venezia, 2001, pp. 247-265; per un
altro interessante saggio sul film e il suo rapporto con la Storia,
l’attenzione del regista nei confronti della cultura popolare, per i canti
degli alpini sulla loro vera esperienza continuamente citati, e che fanno da
sfondo e da introduzione didascalica ai vari “episodi”, Vincenzo Buccheri, “Il
pernacchio e la storia”, in Lo sguardo eclettico. Il cinema di Mario
Monicelli, op. cit., in particolare pp. 166, 168-169, 172.
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