Il primo film italiano del secondo dopoguerra ambientato ai giorni della Grande Guerra è Il caimano del Piave di Giorgio Bianchi. Pellicola del 1950, pone in primo piano l’attività del controspionaggio italiano che, agendo nei territori occupati dagli austriaci, riesce a fornire ai comandi militari le informazioni necessarie per preparare la grande offensiva dell’ottobre del 1918, che porterà alla liberazione di Trento e Trieste e alla fine della guerra. Pellicola dallo stile melodrammatico e attraversata dall'inevitabile storia d’amore, è impreziosita però dall'utilizzo di brani di battaglie tratti da filmati originali dell'epoca e dalla scelta tutta neorealista di impiegare comparse non professioniste, reclutate tra i contadini delle zone dei combattimenti.
Altro film di genere spionistico sulla Grande Guerra è Piume al vento di Ugo Amadoro, del 1951, la cui protagonista è una giovane proprietaria di una villa che dapprima ospita i bersaglieri in ritirata verso il Piave e poi le truppe austriache che li inseguono, riuscendo a passare ai comandi italiani le informazioni che favoriranno l’offensiva vittoriosa finale. Tranne qualche scena di azione ben condotta, il film risente dell’atmosfera melò che sovrasta il cinema italiano degli anni Cinquanta [nota 1].
Un modulo narrativo assai frequentato dal cinema italiano nel raccontare la Grande Guerra, è quello del film biografico sugli “eroi” di quei giorni. Fratelli d’Italia di Fausto Saraceni, del 1952, ad esempio, racconta gli ultimi anni di Nazario Sauro, capitano della marina mercantile austriaca ma fervente patriota italiano, che, fuggendo a Venezia, si arruola nella Regia Marina del nostro paese, partecipando poi alle ricognizioni sulla costa dalmata. Arenatasi la sua nave, Nazario viene avvistato, catturato dagli austriaci e infine portato al patibolo. Caratterizzato da un'impostazione storica superficiale e una precaria realizzazione tecnica, il film è un’opera modesta e trascurabile.
Appartenente allo stesso genere, Bella non piangere di David Carbonari, film del 1955, mette in scena la storia di Enrico Toti, irrequieto ex bersagliere ciclista, con la gamba amputata, che convince il Duca d’Aosta ad arruolarlo con l’incarico di postino lungo la linea del fronte. Durante un violento attacco nemico Enrico viene ferito ma continua a combattere eroicamente fino alla la morte. Pellicola caratterizzata da una «sconsolante» ricostruzione storica e infarcita da molta retorica, rappresenta un'opera mediocre anche da un punto di vista strettamente visivo, cui persino gli inserti di spezzoni di documentari di guerra non aggiungono originalità, trattandosi di brani già utilizzati in altre opere cinematografiche [nota 2].
Fedele al registro militar-nazionalistico di moda nei primi anni Cinquanta è La leggenda del Piave (1952). Il film è ambientato in Veneto dove, in un sontuoso castello, vivono i conti Dolfin. I due sono d'indole diversissima: lei è animata da intenso patriottismo, lui appare invece freddo e calcolatore, intenzionato a utilizzare cinicamente l'evento tragico della guerra per fare guadagni illeciti. Il riscatto però è ancora possibile, e la storia si chiude con un colpo di scena. Quattordicesimo film di Riccardo Freda, la pellicola non coglie nel segno, risultando deludente e troppo retorica [nota 3] .
Del 1953 è Addio, mia bella signora! di Fernando Cerchio, che mette sullo schermo una struggente passione amorosa tra due giovani (Guido e Cristina) sconvolta dall’evento bellico del '15-18. Si arriva al pietismo più spinto quando viene mostrato il povero Gino Cervi (che interpreta un maturo colonnello dei bersaglieri, marito della giovane) privo delle gambe, perse sul Carso. La pellicola termina così irreprensibilmente con l’estremo sacrificio della ragazza, che rinuncia al giovane soldato per curare l’anziano marito mutilato.
Dello stesso anno è Di qua e di là dal Piave di Guido Leoni, film a episodi, di cui i primi tre sono brevi e piacevoli commediole narranti le vicende, sentimentali e non, di alcuni soldati e delle loro ragazze: il tono leggero le rende abbastanza riuscite. Il quarto episodio, costruito com'è con i soliti canoni convenzionali della retorica patriottica, chiude invece ingloriosamente questa pellicola, disturbandone tutto l’impianto.
Del 1954 è l’episodio Guerra 1915-1918 diretto da Pietro Germi, nel collettivo Amori di mezzo secolo. Viene narrata la triste vicenda d’amore di Antonio e Carmela, giovani contadini abruzzesi, sposatisi prima della chiamata al fronte del ragazzo, avvenuta dopo la disfatta di Caporetto. Antonio muore tragicamente in guerra nell'esatto momento in cui nasce suo figlio: i “grandi” fatti della storia sono guardati attraverso le piccole vicende della vita, come in quelle ballate popolari che raccontano una guerra e un’esistenza in poche strofe essenziali, dove i destini della patria non appaiono importanti quanto quello della fidanzata che attende il soldato, e dove lo strazio della nazione in guerra scolora al confronto allo strazio di lasciarsi, di consumare in una fredda trincea la calda età dell’amore. Tutto l’episodio è accompagnato, con insistente discrezione, dai canti degli alpini, usati come malinconico filo conduttore che sembra sottintendere la ribellione dei sentimenti contro la follia del conflitto globale. La guerra, osservata attraverso gli occhi teneri e sperduti dei giovani protagonisti, appare insensata nei suoi obiettivi come nel suo svolgersi: evento incomprensibile e oscuro che esorbita la volontà dei singoli [nota 4].
---------------------------------------------
Note
1) Per la trama e una breve critica de Il
caimano del Piave vedi Gianfranco Casadio, La guerra al cinema. I film
di guerra nel cinema italiano, vol. I, Longo editore, Ravenna, 1998, p. 55
e Roberto Chiti, Roberto Poppi, Dizionario del cinema italiano. I Film dal
1945 al 1959, vol. 2., Gremese, Roma, 1991, p. 70; per Piume al vento,
Gianfranco Casadio, La guerra al cinema. I film di guerra nel cinema
italiano, op. cit., pp. 55-56; sull’atmosfera melò del periodo cfr.
Gianfranco Casadio, op. cit., p. 48.
2) Sul film di Saraceni vedi la scheda di
Gianfranco Casadio, op. cit., p. 57-58 e Roberto Chiti, Roberto Poppi, Dizionario
del cinema italiano. I Film dal 1945 al 1959, op. cit., p. 164; su quello
di Carbonari, Gianfranco Casadio, cit., p. 66 e, Roberto Chiti, Roberto Poppi,
op. cit., pp. 58-59.
3) Sul film vedi la scheda di Gianfranco
Casadio, cit., p. 58 e Roberto Chiti, Roberto Poppi, op. cit., cit., p. 205; su
Riccardo Freda e le sue capacità registiche, da rivalutare, ma forse non per
tale film, vedi la scheda di Jean A. Gili nel Dizionario dei registi del
cinema mondiale, vol. I, cit., pp. 686-87 e in particolare il libro scritto
da Freda, Divoratori di celluloide, Mystfest, Milano, 1981.
4) Per il film di Cerchio, si veda la scheda di
Gianfranco Casadio, op. cit., pp. 59-60 e e Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit.,
p. 19; per il film di Leoni, trama e critica in Gianfranco Casadio, cit., pp.
60-61 e Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit., p. 119; per l’episodio diretto da
Germi, Gianfranco Casadio, cit., pp. 61-62, Roberto Chiti, Roberto Poppi, cit.,
p. 35-36: per un’interessante sintesi sul corto, sulla sua morale che non è dare giudizi, ma la vita
stessa col suo eterno dipanarsi fra guerre e amori, sulle analogie con la
musica popolare e l’importanza della musica come filo conduttore, l’analogia
con le canzoni dei cow-boys nei western, la considerazione della guerra vista dagli
occhi dei protagonisti e il «lieve distacco affettuoso» del regista , come se
il film fosse già il racconto di un cantastorie di paese, cfr. Enrico
Giacovetti, Pietro Germi, il castoro cinema/La nuova Italia, Firenze,
1990 (ma stampato nel ’91), pp. 55-57.
Nessun commento:
Posta un commento