Nel 1967, ne I vinti di Caporetto, Mario Isnenghi lamentava la difficoltà di ricostruire il sentire reale delle masse rispetto alla Grande Guerra perché "le classi subalterne non hanno lasciato un loro diario di guerra". Da allora le ricerche sono proseguite e la storiografia ha subito profondi mutamenti di prospettiva. Così, nel 2007, Antonio Gibelli può scrivere nel suo L'officina della guerra: "Una delle constatazioni su cui si basa questo libro è che non solo la scrittura da parte di «illetterati» divenne nel corso della guerra particolarmente copiosa, ma che questo stesso ricorso alla scrittura (epistolare, diaristica e memorialistica) da parte di uomini che fino ad allora ne erano rimasti largamente esclusi, costituisce un indizio e un aspetto non secondario della trasformazione antropologica e sociale che la guerra concorse a produrre".
Nel contesto della riscoperta e valorizzazione di tali materiali, risulta particolarmente prezioso un testo come Uomini di creta (I diari di un soldato novarese nella Grande Guerra) di Giancarlo Romiti, uscito recentemente presso le Edizioni Helicon (vai alla scheda del libro sul sito dell'editore). Il libro racconta la vicenda guerresca di Bartolomeo Baccalaro, classe 1894, contadino-soldato di Fara Novarese, paesino a pochi chilometri da Novara. La pubblicazione si basa sui seguenti manoscritti del soldato novarese: cinque taccuini (tre conservati nell'Archivio Ligure della Scrittura Popolare dell'Università di Genova, gli altri due scoperti dall'autore) e un gruppo di lettere. Particolare è la scelta stilistica adottata in questo libro che fa largo uso delle tecniche della critica testuale. Scrive l'autore nell'introduzione:
Entriamo ora nel cuore della questione. Chi era Bartolomeo Baccalaro e come visse l'esperienza della guerra?
n.b. tutte citazioni che seguono sono tratte da Uomini di creta di Giancarlo Romiti
Nel contesto della riscoperta e valorizzazione di tali materiali, risulta particolarmente prezioso un testo come Uomini di creta (I diari di un soldato novarese nella Grande Guerra) di Giancarlo Romiti, uscito recentemente presso le Edizioni Helicon (vai alla scheda del libro sul sito dell'editore). Il libro racconta la vicenda guerresca di Bartolomeo Baccalaro, classe 1894, contadino-soldato di Fara Novarese, paesino a pochi chilometri da Novara. La pubblicazione si basa sui seguenti manoscritti del soldato novarese: cinque taccuini (tre conservati nell'Archivio Ligure della Scrittura Popolare dell'Università di Genova, gli altri due scoperti dall'autore) e un gruppo di lettere. Particolare è la scelta stilistica adottata in questo libro che fa largo uso delle tecniche della critica testuale. Scrive l'autore nell'introduzione:
Il mio lavoro è consistito quindi nel recuperare tutto il materiale utile a ricostruire un profilo biografico di Bartolomeo Baccalaro a cui è dedicata la prima parte del lavoro. Nella seconda parte sono stati analizzati i cinque manoscritti individuandone la tipologia di ciascuno e tentando di ricostruirne le fasi di elaborazione in relazione ai diversi periodi della guerra. Nell'ultima parte si è cercato di analizzare l'esperienza di guerra di Baccalaro attraverso i suoi manoscritti, dal periodo di addestramento a Torino alle battaglie sul Carso, sino alla tragica ritirata di Caporetto.
n.b. tutte citazioni che seguono sono tratte da Uomini di creta di Giancarlo Romiti
Terminati gli studi elementari, Bartolomeo rimase in famiglia ad occuparsi del lavoro dei campi fino a quando, il 25 novembre 1915 venne arruolato come porta feriti. [...] Nonostante il basso livello di scolarizzazione, affrontò carta e penna con maggior disinvoltura rispetto a tanti suoi coetanei. La scrittura diventò anzi una delle sue occupazioni principali anche quando non fu semplice ritagliarsi uno spazio di tempo sufficiente.All'inizio Bartolomeo sembra partecipe del generale clima interventista e si getta con giovanile entusiasmo nell'avventura della guerra. Il 20 novembre 1915 appunta nel suo diario:
Faccio festa perché per il 25 devo presentarmi alla visita ed essere arruolato nell'esercito.Quasi un anno più tardi, in una lettera del 23 settembre 1916, quando (dopo sette mesi abbastanza spensierati di addestramento a Torino e un gravoso periodo trascorso come infermiere al centro smistamento feriti presso l'ospedale Lamarmora, sempre a Torino) è appena giunto a Romans, nelle retrovie del fronte del Carso, ancora scrive:
Io non mi sono mai trovato così bene e dico francamente che preferisco questa nuova vita che quella trascorsa all'ospedale. È vero che qui si dorme per terra ma quello che ci tengo di più è d'essere all'aria libera. Sono in piena villeggiatura.Non ci vuole molto, però, perché l'esperienza reale della guerra renda assai più cupo il tono delle sue riflessioni. Ecco cosa Bartolomeo riferisce, ad esempio, il 15 ottobre 1916:
Da qui l'occhio apprende e vede, non senza provare un senso di commozione, tutta la difficoltà della guerra e la terribile conseguenza. Tutto è distrutto, sembra d'essere in pieno deserto, in terra maledetta senza vegetazione. Tutto è bruciato, le piante sono mozzate e pelate a un metro da terra, il suolo e tutto smosso bucato, sembra lavorato. Ad ogni tratto ecco le trincee, le terribili trincee tenute per più di un anno dai nemici. Queste sono profonde un paio di metri unite una dall'altra da camminamenti e protette fino da 3 linee di reticolato fatto da cavalletti di ferro. [...] Un violento terremoto non avrebbe ridotto a tal rovina questo paesello.Si tratta di un brano magistrale, vivido e potente, che rivela un potenziale grande narratore nel nostro contadino illetterato. Cosa ribadita da moltissimi suoi appunti che qui, per ragioni di spazio, non possiamo riportare. Valgano per tutti i seguenti. Il primo, che costruisce immagini quasi metafisiche, è del 24 ottobre 1916:
In questi giorni di pioggia l'uomo diventa come un rettile che si striscia e si muove nel fango. Pare incredibile, con le gambe sepolte nel fango stanno i soldati appoggiati a gruppi uno accanto all'altro col fucile tra le gambe trovando sonno mentre dall'alto cade inesorabile la pioggia penetrando fino alle ossa. Sembrano uomini di creta.E questo del 14 maggio 1917:
La nostra dolina è bombardata violentemente, un soldato dalla paura diventa pazzo. Il combattimento continua senza ottenere nessun guadagno positivo. Io per tre o quattro volte sono comandato ad accorrere a prendere dei feriti sul bivio della strada alla nostra destra. Sono tragitti pericolosissimi sotto un fuoco d'inferno la strada è tutta ingombra di rottami, di camions sfasciati di muli morti di basti di carrette e non mancano i morti.Mirabili per drammaticità e suggestione sono le pagine che Bartolomeo dedica alla fuga verso il Piave, dopo la rotta di Caporetto. Ecco un passo del 28 ottobre 1917:
Lo spettacolo quella sera è tremendo acqua dal cielo e incendio a terra sembra il finimondo. I soldati imprecano e cantano si è tutti incoscienti pare di sognare.E un brano tratto dal quarto quaderno, da datarsi al 4 novembre 1917:
Verso mezzo giorno si ebbe notizia che il nemico, sfondato le linee di copertura alla nostra destra, minacciava di circondarci. Fu subito dato l'ordine del ripiegamento in tutta fretta. Il tempo è sempre piovoso con nebbia in modo da impedire al nemico di vedere le nostre mosse. Salutati i borghesi del cascinale che, raggruppati davanti all'immagine della vergine sotto il portico del cascinale, pregavano e piangevano raccomandandosi alla madonna, ci avviammo a passo di corsa verso Fossalta Maggiore.Nelle fasi avanzate della sua esperienza al fronte, come abbiamo accennato, l'opinione del giovane soldato intorno alla guerra che sta combattendo appare del tutto mutata. Gli entusiasmi iniziali sono dimenticati e la sostanza della vita militare (così come si mostra nei suoi scritti) appare ormai feroce, disumana e del tutto insensata. Riportiamo a tale proposito, a chiusura di questa recensione, la sferzante poesia Alla divisa militare con cui Bartolomeo Baccalaro, contadino-soldato, termina il suo quinto quaderno:
Uh che seccagine!
Oh maledette
le stellette e le righette
e i mafiosi ufficialetti.
Mi par mill'anni
con questi panni
che in me gridavano
animo animo.
Dario Malini
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