In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare
A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto
E me ne stacco sempre
Straniero
Nascendo
tornato da epoche troppo
vissute
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Cerco un paese
Innocente
Giuseppe Ungaretti, Girovago(Campo
di Mailly, maggio 1918)
La riflessione poetica sulla
guerra, in autori meno raffinati, è spesso contaminata dal linguaggio della
retorica, e non è sempre immune da sprazzi di un patriottismo un poco ingenuo. Sono questi
degli scritti che la sensibilità moderna avverte come particolarmente datati,
ma che, oltre a documentare un sentire assai diffuso in quegli anni, hanno
talvolta non piccoli pregi artistici. A tale proposito, vi proponiamo un
sonetto del soldato Fortunato Rizzi, tratto dal suo ormai introvabile
libricino Intermezzi di guerra,
sottotitolo Sonetti zoldani
(1917). Poesie stilisticamente ancora più o meno ottocentesche, che tuttavia non
sono prive di una fresca schiettezza. Scrive l’autore nell’introduzione: «Questi sonetti mi vennero fatti tra l’ottobre e il
dicembre 1916, quando le vicende della guerra dalla Conca di Plezzo, mi
trasferirono alla fronte cadorina e precisamente nell’Alto Zoldo (Belluno). […]
La vita di guerra non è fatta per compor poesie, onde qualcuno di questi
sonetti ha più disinvoltura da bersagliere e rudezza da alpino che non
finitezza da letterato. I lettori mi perdonino e li accolgano per quel che
sono: intermezzi di guerra».
Da Intermezzi di guerra riportiamo il sonetto Morte e vita, componimento nel quale le glaciali vedute montane
innevate, teatro dei combattimenti, rimandano alla triste condizione dei
soldati, entrambe fredde, chiuse e ferine, entrambe rischiarate dal
sorprendente riverberare della speranza.
La neve ormai s’indugia in ogni vetta
e, a valle, nasce e muore in modo
alterno;
niveo gigante, immoto, erto il Civetta
sonnecchia già nel manto suo d’Inverno.
Fischia la brezza fredda, e per la
stretta
m’urta il nevischio sì ch’io più non
scerno;
ma tra i larici gialli, a sfida, getta
l’abete intatto il suo bel verde eterno.
Pur tra gli uomini infuria il verno; e i
cuori
son freddi e chiusi, e già le menti
umane
son fatte amiche ai più ferini orrori;
ma dalla morte qualche vita avanza,
ma dalla selva di ferocie strane
pur verdeggia un augurio, una speranza!
Fortunato Rizzi, Intermezzi
di guerra
Si parte.
Pioggia, snebbiarsi lento del cielo uguale. Poi neve. Nel bosco incappucciato
di bianco, attraverso viali come di ville dignitose. Il crepuscolo attinge luce
più morbida dal suolo: gli alberi sono natalizii, e le baracche confìtte nel
suolo - dalle finestrelle si irradia la luce sulla neve - sono presepi tiepidi.
Attirano con
dolcezza di meta. Si pensa che giacere sulla paglia asciutta, fiutare il tanfo
sano dei vicini che russano, indulgere all’irrequieta passeggiata dei pidocchi
siano le più desiderabili cose. Ma si continua a marciare.
Ed ecco vien
fuori la luna a giuocare a rimpiattino con i gravi abeti infarinati. Essa
veniva nel viale degli abeti, la luna passata, ed i suoi denti di tigretta
brillavano per il piacere. Forse stanotte, al di là della linea delle vedette,
ci scontreremo con il nemico; forse essa a questa luna mi mette le corna. Amen.
Questo scenario
di neve alta ed intatta non m’è nuovo. Molle sordina di bianco sul gemere dei
torrenti sul frusciare degli abeti. Il vento non ha voce, spolvera i rami
carichi, veli d’argento luccicano contro il sole, valanghette di neve scivolano
mute provocate dal passo senza suono. Ma c’è là in fondo un martellare ritmico
che giunge puro su tutta la calma del vallone, urto di palle frequenti su un
bigliardo di cristallo, riborbottato dai monti in cerchio, e lo crederesti un
lavoro di legnaiuolo, se i tuoi arnesi di guerra non ti dicessero altra cosa.
Fucilate, dunque. Ma sono così lontane e s’incesellano così nette nell’aria
fredda che non dicono nulla al cuore (sarà D’Incà con la sua pattuglia di punta
che ha trovato i tedeschi alla malga).
La guerra non
m’ha toccato ancora.
Paolo Monelli, Le
scarpe al sole
Stavamo stesi,
ventre a terra, la testa appena riparata da qualche sasso e da zolle. Ad ogni
raffica di mitragliatrice, ad ogni sibilo di granata, istintivamente, noi
facevamo ancora uno sforzo per occupare meno spazio e offrire meno
vulnerabilità, schiacciandoci sempre più sul terreno, appiattiti fino alla
linea del suolo.
Il
bombardamento dell'artiglieria era fatto, oltre che da tutti i pezzi da
campagna appostati nella conca d'Asiago, dai grossi calibri.
Per la prima
volta, i 305 e i 420 entravano in azione sull'Altipiano.
Questi ultimi,
noi non li conoscevamo ancora.
La traiettoria
produceva un rumore speciale, un boato gigantesco, che s'interrompeva, di tanto
in tanto, per riprendere, sempre più crescente, fino all'esplosione finale. Trombe
di terra, sassi e frantumi di corpi si elevavano, altissimi, e ricadevano
lontani. Nello scavo prodotto poteva prender posto un plotone ammassato. Io
pensavo alla corazza del maggiore. Rari colpi toccavano la prima linea. La gran
parte si rovesciava alle nostre spalle, verso i due grandi avvallamenti
laterali e attorno a Monte Spill. Tutto il terreno tremava sotto i nostri
piedi. Un terremoto sconvolgeva la montagna. Anche adesso, a tanta distanza di
tempo, mentre il nostro amor proprio, per un processo psicologico involontario,
mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sembrano i più nobili e
accantona gli altri, io ricordo l'idea dominante di quei primi momenti.
Più che
un'idea, un'agitazione, una spinta istintiva: salvarsi.
Emilio Lussu, Un
anno sull’altipiano
Procediamo
lungo uno stretto sentiero mentre cupe deflagrazioni riecheggiano nella valle.
Conducendo i muli per la cavezza, marciamo senza dire una parola e alzando solo
di tanto in tanto lo sguardo dal terreno insidioso verso le maestose cime senza
nome che ci circondano. Gli animali, carichi di munizioni, avanzano lenti, non
meno malinconici di coloro che li guidano. Sono sorpreso di constatare come la
sensazione che mi pervade somigli più alla tristezza che alla paura. Giù, in
fondo alla valle, il bell’azzurro dell’Isonzo, col trascorrere delle ore, è
andato mutando in uno spento verdecupo e poi nel nero più profondo. In una
strada lontana, candida strisciolina serpeggiante, s’indovina l’ininterrotto
incrociarsi di automobili, cavalli, soldati. Le parabole degli obici sibilano
sopra le nostre teste, terminando con boati rintronanti contro i monti che ci
sovrastano. Stretti fasci di luce scandagliano il cielo a caccia di aeroplani.
Di tanto in tanto i cannoni tacciono tutti assieme: allora si produce un silenzio
irreale, greve e impressionante. Dietro di me, l’equino respira rumorosamente,
le umide e calde narici palpitanti. Nel buio, ne distinguo con chiarezza solo
gli occhi sporgenti e rassegnati.
Dario Malini, Il
sorriso dell’obice
Sensazioni cupe, quelle descritte,
tuttavia ancora vitali e ricche di palpiti. Successivamente, però, la dura esistenza al fronte stende come un velo
sui sensi dei soldati che diventano una parte quasi
insensibile, un banale ingranaggio, dell'immensa macchina della guerra. Di ciò tratta il brano seguente, sempre del Sorriso dell'obice. Una volta ancora, viene riverberata la questione scottante della perdita dell'innocenza, vero tema portante di questa riflessione sulla letteratura di guerra italiana.
La grande laboriosità
silenziosa e continua, il cannone lontano con i suoi boati lunghi e tristi;
tutto, all’inizio, pareva strapparci qualcosa dall’anima. Ora, invece, siamo
posseduti da un incessante spasimo nervoso che ci fa agire senza una vera
coscienza. E non percepiamo quasi più l’irragionevolezza di questa curiosa
esistenza guerresca né il rimpianto per le luci e l’animazione della città.
Tanto siamo diventati parte di tale vita di distruzione, che lo scoppio di uno
shrapnel a pochi passi, ci lascia insensibili con sulle labbra un sorriso
diretto al tiratore incapace di colpirci.
Dario Malini, Il
sorriso dell’obice
Nessun commento:
Posta un commento